Radici

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  1. Pulp Jules
     
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    http://www.limbasarda.it/index.html

    Andiamo avanti con innovazione, cultura, tecnologia;
    ma non perdiamo mai di vista la nostra identità image
     
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  2. albertoz
     
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    In pratica una delle proposte sarebbe quella di creare un sardo scritto ... ibrido tra nord e sud? :o:
     
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  3. Istèvini
     
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    CITAZIONE (Pulp Jules @ 3/2/2007, 23:08)
    http://www.limbasarda.it/index.html

    Andiamo avanti con innovazione, cultura, tecnologia;
    ma non perdiamo mai di vista la nostra identità image

    ...in 24anni non ho ancora capito perché la gente continui a pensare l'identità come un ostacolo per la conquista dell'innovazione, progresso, tecnologia, cultura e creatività, e, contemporaneamente, questi ultimi come ostacolo per la riconquista dell'identità!!
    Perché la gente continua a credere (o forse Vuole credere image) che le cose siano in antitesi??

    Io, invece, credo che vadano nella stessa direzione.....poi, ovviamente, dipende da cosa una persona intende per identità, dipende da qual'è la sua identità, e quella della sua terra (o l'identità di quella in cui vive)....

    http://www.comitau.org/
    http://www.sotziulimbasarda.net/
    http://www.sotziulimbasarda.net/Iscolimba/iscolimbaindex.htm
    http://www.ditzionariu.org/home.asp?lang=sar
    http://www.limbasarda.org/
    http://www.limbasarda.it/
    http://www.sardu.net/
    http://www.acalisa.org/
    http://www.condaghes.com/limbasarda.asp?ver=it
    http://www.artivu.com

    image
     
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  4. albertoz
     
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    Non è per voler fare una facile ironia, ma secondo me un po' di colpa è anche di Videolina e di altre televisioni sarde, che presentano sempre la 'tradizione' come un qualcosa di 'rievocato' e spesso pure 'noioso'. Io sono tra i primi a detestare questi tipi di programmi. Ben diverso sarebbe se si iniziasse a parlare di 'cultura sarda' non solo come passato, ma anche come presente e soprattutto come futuro. Non penso che non ci siano abili scrittori, artisti, poeti e scienziati sul nostro territorio, che non siano capaci di trasmettere qualcosa in lingue diverse dall'italiano...

    Il problema è atavico... una colonizzazione culturale fatta proprio in grande stile... cultura cancellata e passato cancellato... una imposizione di una lingua esterna, che ha prevalso e prevale nettamente su quella 'nativa'. Aggiungiamo poi il ruolo delle scuole... a scuola non si studia il sardo. Al massimo l'italiano... Tutti i testi sono in italiano, idem i professori parlano in italiano, etc.

    Uno insomma potrebbe dire: "Che m'importa d'imparare il sardo, se poi non lo posso usare? per tenere in vita una tradizione? capirai il problema...". E qualcuno potrebbe ribattere: "La cultura e la lingua sarda sono Identità: andrebbero insegnate nelle scuole!". Il tipo di prima avrebbe pronto lo scacco matto: "E quale sardo vorresti insegnare?". È evidente che ogni zona vorrebbe avere il suo predominio...

    Ad esempio io potrei dire: "Il sardo autentico è quello logudorese, quello che ha resistito più degli altri alle invasioni: insegniamo il sardo logudorese". E il campidanese direbbe: "Perché dovrei imparare quel sardo? e come mi capisco coi miei vicini?". A parte la rivalità antica tra nord e sud, si metterebbe il problema di impostare una grammatica specifica, e un vocabolario adeguato.

    E a quali dialetti ci si riferisce?

    Secondo me è un problema davvero enorme, e i più usano la soluzione più semplice: lasciar perdere.... a che prezzo, però?



    p.s. tra i più famosi esperti di sardo ci sono un giapponese (Sugeta, mi pare) e uno di Barcellona (Blasco Ferrer). E uno dei primi era un tedesco di nome Wagner...
     
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  5. Istèvini
     
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    CITAZIONE (albertoz @ Inviato il: 4/2/2007, 12:51)
    Non è per voler fare una facile ironia, ma secondo me un po' di colpa è anche di Videolina e di altre televisioni sarde, che presentano sempre la 'tradizione' come un qualcosa di 'rievocato' e spesso pure 'noioso'.

    "Complici" è il termine esatto...

    CITAZIONE (albertoz @ Inviato il: 4/2/2007, 12:51)
    Io sono tra i primi a detestare questi tipi di programmi. Ben diverso sarebbe se si iniziasse a parlare di 'cultura sarda' non solo come passato, ma anche come presente e soprattutto come futuro.

    image :cool: image

    CITAZIONE (albertoz @ Inviato il: 4/2/2007, 12:51)
    Non penso che non ci siano abili scrittori, artisti, poeti e scienziati sul nostro territorio, che non siano capaci di trasmettere qualcosa in lingue diverse dall'italiano...

    Ci sono, ci sono...credimi....è che non son pubblicizzati e son ritenuti comunque inferiori (nel caso di arte in limba)

    CITAZIONE (albertoz @ Inviato il: 4/2/2007, 12:51)
    Il problema è atavico... una colonizzazione culturale fatta proprio in grande stile... cultura cancellata e passato cancellato... una imposizione di una lingua esterna, che ha prevalso e prevale nettamente su quella 'nativa'. Aggiungiamo poi il ruolo delle scuole... a scuola non si studia il sardo. Al massimo l'italiano... Tutti i testi sono in italiano, idem i professori parlano in italiano, etc.

    Albè, mi stupisci (in senso positivo) ogni giorno di più image...ma che ti sta succedendo?? image

    CITAZIONE (albertoz @ Inviato il: 4/2/2007, 12:51)
    Uno insomma potrebbe dire: "Che m'importa d'imparare il sardo, se poi non lo posso usare? per tenere in vita una tradizione? capirai il problema...". E qualcuno potrebbe ribattere: "La cultura e la lingua sarda sono Identità: andrebbero insegnate nelle scuole!". Il tipo di prima avrebbe pronto lo scacco matto: "E quale sardo vorresti insegnare?". È evidente che ogni zona vorrebbe avere il suo predominio...

    Ad esempio io potrei dire: "Il sardo autentico è quello logudorese, quello che ha resistito più degli altri alle invasioni: insegniamo il sardo logudorese". E il campidanese direbbe: "Perché dovrei imparare quel sardo? e come mi capisco coi miei vicini?". A parte la rivalità antica tra nord e sud, si metterebbe il problema di impostare una grammatica specifica, e un vocabolario adeguato.

    E a quali dialetti ci si riferisce?

    Secondo me è un problema davvero enorme, e i più usano la soluzione più semplice: lasciar perdere.... a che prezzo, però?

    Inizio col dire che <<le lingue sarde non son due, tre o quattro, ma è UNA!!>> e che <<nella lingua sarda non esistono dialetti!!>>.
    La lingua sarda è UNA!!
    Quelle che solitamente chiamiamo con "logudorese" e "campidanese" son varianti - e non dialetti - appartenenti alla stessa lingua. Hanno la stessa grammatica, la stessa sintassi, stessa struttura, forma, regole...
    Se si vuole affrontare SERIAMENTE il problema la filosofia da adottare è questa:
    <<la lingua sarda è una e solo una. è composta da diversi sinonimi come accade NORMALMENTE IN TUTTE LE LINGUA DEL MONDO!! Quindi se io dico "no dhu sciu" e un altro dice "no dhu isco" non stiamo parlando in due lingue diverse. Stessa cosa succede tra "imò (imòba) andhu a pappai" e "como andho a murzare".
    Ciò che si deve insegnare a scuola, prima di tutto, è la grammatica e la sintassi. Poi se uno dice "como" e l'altro "imò" non fa differenza, come in italiano si può dire "adesso", "ora", "in questo momento", eppuru sempri italianu esti!!
    Contemporaneamente si insegna il lessico e i vari sinonimi. Imparare e usare "imò" non esclude l'uso di "como" e viceversa, come non si escludono a vicenda "ora" e "adesso" in italiano!!>>

    Boh, io non lo vedo tutto questo problema. Basta Volere.

    CITAZIONE (albertoz @ Inviato il: 4/2/2007, 12:51)
    p.s. tra i più famosi esperti di sardo ci sono un giapponese (Sugeta, mi pare) e uno di Barcellona (Blasco Ferrer). E uno dei primi era un tedesco di nome Wagner...

    ...giàh, paradossalmente.

    E pensare che in diversi stati e nazioni del mondo si insegna il sardo. Ad es in Germania, con addirittura il sito dell'università scritto in sardo!!

    http://www.lingrom.fu-berlin.de/sardu/
    GUARDARE PER CREDERE!!!


    :compli: :party: :lolla:



    P.S: Comunque anche Amos Cardia è di alti livelli!!
     
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  6. albertoz
     
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    CITAZIONE (Istèvini @ 4/2/2007, 14:28)
    Inizio col dire che <<le lingue sarde non son due, tre o quattro, ma è UNA!!>> e che <<nella lingua sarda non esistono dialetti!!>>.
    La lingua sarda è UNA!!
    Quelle che solitamente chiamiamo con "logudorese" e "campidanese" son varianti - e non dialetti - appartenenti alla stessa lingua. Hanno la stessa grammatica, la stessa sintassi, stessa struttura, forma, regole...
    Se si vuole affrontare SERIAMENTE il problema la filosofia da adottare è questa:
    <<la lingua sarda è una e solo una. è composta da diversi sinonimi come accade NORMALMENTE IN TUTTE LE LINGUA DEL MONDO!! Quindi se io dico "no dhu sciu" e un altro dice "no dhu isco" non stiamo parlando in due lingue diverse. Stessa cosa succede tra "imò (imòba) andhu a pappai" e "como andho a murzare".
    Ciò che si deve insegnare a scuola, prima di tutto, è la grammatica e la sintassi. Poi se uno dice "como" e l'altro "imò" non fa differenza, come in italiano si può dire "adesso", "ora", "in questo momento", eppuru sempri italianu esti!!
    Contemporaneamente si insegna il lessico e i vari sinonimi. Imparare e usare "imò" non esclude l'uso di "como" e viceversa, come non si escludono a vicenda "ora" e "adesso" in italiano!!>>

    Boh, io non lo vedo tutto questo problema. Basta Volere.

    A spanne, un vocabolario praticamente triplicato o quadruplicato? :woot:
    Sono un po' scettico riguardo la teoria dei sinonimi... tu diresti "como andho a pappai"? mescolando "termini del nord" con "termini del sud"? Secondo me ci sono abbastanza differenze per pensare due varianti sufficientemente distinte... Tu pensa solo chi volesse organizzare un corso di sardo... quante volte dovrebbe dare dei sinonimi? Ci sarebbero sinonimi quasi per ogni parola O_O''
     
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  7. Istèvini
     
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    CITAZIONE (albertoz @ Inviato il: 4/2/2007, 15:06)
    A spanne, un vocabolario praticamente triplicato o quadruplicato? :woot:

    Perché che c'è di male??
    ...la bellezza, l'eleganza, di una lingua si valuta anche per il numero di parole che fan parte del suo vocabolario, e del numero di parole che possono identificare e comunicare un certo significato!!
    Perché allora non fare lo stesso ragionamento per la lingua italiana e iniziare a fare un pò di "piazza pulita" riducendo così i lemmi e avendo così un unico lemma x identificare un unico significato?? Decidiamo togliamo "adesso" o "ora"? :lol: ;) :D

    ...boh :(

    CITAZIONE (albertoz @ Inviato il: 4/2/2007, 15:06)
    Sono un po' scettico riguardo la teoria dei sinonimi... tu diresti "como andho a pappai"? mescolando "termini del nord" con "termini del sud"? Secondo me ci sono abbastanza differenze per pensare due varianti sufficientemente distinte... Tu pensa solo chi volesse organizzare un corso di sardo... quante volte dovrebbe dare dei sinonimi? Ci sarebbero sinonimi quasi per ogni parola O_O''

    Perché la tua insegnante di italiano, allora, ti ha detto tutti i sinonimi??
    Perché la tua insegnante di italiano ha perso tempo perché ti ha spiegato che "ora", "adesso", "attualmente", "al presente" e "in questo momento" hanno lo stesso significato?? ...ma dai!!
    Guarda, mi son portato qui davanti il vocabolario dei sinonimi della lingua italiana...ogni significato ha 5-6 parole....che ce ne facciamo di tutte queste parole?? ma e ce li hanno insegnate tutte a scuola??
    A me no, se uno legge diversi libri imparerà a conoscerli e a usarli. Proprio come dovrà succedere per la lingua sarda.
    oppure se uno non legge, basta girare un pò, far conoscenze per la Sardegna, e si arriverà a capire che como-imò, praxidi-praghede, murtzai-pappai, bideus-bidimos, son le stesse cose.
    il fatto di battere la lingua dove il dente duole, ossia sugli stereotipi di rivalità tra nord e sud (come se esistessero solo in sardegna!!...naaaahh) e sull'incapacità di capirsi tra nord e sud, non si arriverà da nessuna parte!!

    boh, sinceramenteimage, continuo a non capire quali siano i problemi...imageimage

    Edited by Istèvini - 4/2/2007, 16:10
     
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  8. albertoz
     
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    Hai tirato fuori una argomentazione praticamente inattaccabile... il problema sarebbe 'far incontrare' questi due gruppi "vissuti lontani"... In effetti sì, si potrebbe iniziare a fare un po' come si fa col latino... Grammatica, storia, letteratura, "traduzioni", versioni......

    Sarebbe un primo passo, anche se il rischio sarebbe quello di dare un connotato "vecchio" ..... Altra domanda ingegneristica. Ammettiamo di avere tutte le conoscenze a disposizione. Ci sarebbero abbastanza "maestri" di sardo? :o:
     
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  9. Istèvini
     
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    CITAZIONE (albertoz @ Inviato il: 4/2/2007, 20:26)
    Hai tirato fuori una argomentazione praticamente inattaccabile... il problema sarebbe 'far incontrare' questi due gruppi "vissuti lontani"... In effetti sì, si potrebbe iniziare a fare un po' come si fa col latino... Grammatica, storia, letteratura, "traduzioni", versioni......

    non solo col latino...ma come si fa in tutte le lingue al mondo.

    CITAZIONE (albertoz @ Inviato il: 4/2/2007, 20:26)
    Sarebbe un primo passo, anche se il rischio sarebbe quello di dare un connotato "vecchio" ..... Altra domanda ingegneristica. Ammettiamo di avere tutte le conoscenze a disposizione. Ci sarebbero abbastanza "maestri" di sardo? :o:

    Non lo so, albè, quanti sono, a oggi, i maestri di sardo. Potrebbero anche esser di meno di uno per ogni comune (che son 378 o giù di lì), ma, sopratutto all'inizio, ci potrebbe essere il sostegno delle tantissime associazioni culturali che si interessano di limba. Contemporaneamente bisogna investire (non solo economicamente ma anche culturalmente) nella formazione e nell'università di lingue, specialità limba sarda. Comunque non credo siano pochissimi i linguisti di limba.
    Se si ha la volontà di realizzare questo progetto, allora che si faccia! ...anche se con piccole difficoltà iniziali (vedi l'aiuto delle Ass.Cul, dei tanti singoli appassionati che si studiano il sardo, etc..) ma bisogna iniziare, bisogna seminare per veder crescere, un domani, i frutti. Non possiamo aspettare a quando i possibili insegnanti di sardo diventino 100mila!! Eeehhh tanti jià esti crasi!!

    Saludus,
    Istèvini.
     
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  10. albertoz
     
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    Ogni progetto deve iniziare da qualcosa...
    anche una passeggiata lunghissima inizia con un banale passo....
     
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  11. Istèvini
     
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    CITAZIONE
    www.unionesarda.it

    L’UNIONE SARDA, 29 marzo 2007

    Intervista all’autore del nuovo saggio “Pregare in sardo. Scritti su Chiesa e Lingua in Sardegna”
    La limba perduta dei sacerdoti di Sardegna

    Padre Raimondo Turtas: «In Catalogna e Friuli si celebra nelle lingue locali, perché da noi no?»

    Il Padre Raimondo Turtas , 75 anni, gesuita, di Bitti, ha insegnato Storia della Chiesa all’Università di Sassari. Il suo libro, “Storia della Chiesa in Sardegna dalle origini al Duemila” (Roma, 1999), rappresenta la più importante opera di storia sulla Sardegna dell’ultimo decennio.
    Qualche mese fa è uscito il suo ultimo libro: “Pregare in sardo. Scritti su Chiesa e Lingua in Sardegna” (Cuec, 2006, pagine 239, euro 16).
    In esso vengono raccolti gli articoli che il più importante storico vivente della Chiesa sarda ha scritto per i settimanali diocesani a partire dal 2002. Si tratta di una vera e propria immersione nella storia cristiana della Sardegna lungo i suoi duemila anni.

    Quale lingua hanno parlato i cristiani? Quale utilizzavano nella liturgia?

    Settantadue capitoli, l’esatto corrispondente di altrettanti articoli raccolti dal glottologo Giovanni Luppinu, accompagnano il lettore lungo un percorso che, mentre descrive la lingua parlata dalla Chiesa cattolica in Sardegna, ci racconta la vicenda lunga della Chiesa nell’Isola.
    Ci troviamo, cioè, di fronte alla storia della lingua che cammina accanto e ci descrive la storia della Chiesa sarda. Con il nostro gesuita bittese che si sofferma su ciò che da sempre si sa, ma che non smette di suscitare meraviglia, nonostante tutto: la storia della lingua di un popolo è la storia della sua identità, racconta il percorso della sua libertà. O della sua oppressione. Una consapevolezza che, nello storico della cristianità sarda, si trasforma in richiesta decisa di quanto da secoli è stato negato: sa limba nella liturgia.

    L’introduzione al suo nuovo libro titola: “Deus ti salvet… Sardigna!”. Cosa sta succedendo?

    «Purtroppo la malattia ha impedito al cardinal Pompedda di scrivere l’introduzione che gli avevo chiesto. Mi sono perciò rivolto a monsignor Duilio Corgnali, un parroco del Friuli che con altri preti e laici ha contribuito a fare del friulano una lingua liturgica ed ora messa e sacramenti vi si celebrano anche in quella lingua. Perché allora quel suo grido di dolore, “Deus ti salvet, Sardigna”? Forse perché ha conosciuto la ritrosia dei vescovi sardi che, dopo avere dichiarato nel recente Concilio Plenario Sardo del 2001 che la lingua sarda è stata l’unico strumento che ha “tramandato per generazioni un grande patrimonio di fede e di sapienza cristiana” ora, dopo sei anni da quel Concilio, sembra l’abbiano dimenticato e si mostrano esitanti a impegnarsi per una liturgia in lingua sarda, come se questo compito non toccasse prima di tutti a loro.
    Se una dichiarazione può bastare all’Unesco, che ha indicato il canto a tenore sardo come “patrimonio intangibile dell’umanità”, dai vescovi si pretende molto più che semplici dichiarazioni».

    Si legge che siamo arrivati al punto che si celebrano messe “clandestine” in sardo…

    «Non credo siano messe clandestine vere e proprie. Si tratta, al più, di messe nelle quali le letture bibliche e l’omelia sono fatte in sardo con l’aggiunta, magari, del canto di qualche gosos».

    Il Concilio regionale sardo è finito da appena qualche anno. Non poteva non cogliere l’aria identitaria che si respira in Sardegna. Cos’è che frena una disponibilità verso tali temi?

    «E come se l’ha colta! Ha infatti riconosciuto che vi era in Sardegna “una diffusa istanza che vede nella lingua sarda un singolare strumento comunicativo della fede per il nostro popolo”; non si capisce perché ora essi lamentano che la richiesta della liturgia in lingua sarda non sia “più generale, autentica, condivisa da sacerdoti e fedeli”; con un po’ di provocazione, avevo chiesto loro se s’aspettavano un tiro di sassi contro le loro finestre: la liturgia in lingua sarda è un compito che tocca anzitutto a loro e non per dirci che ci sono difficoltà, ma per darsi da fare perché, tutti insieme, possiamo superarle».

    Cosa fa e potrebbe fare, la Chiesa?

    «I filologi romanzi di tutto il mondo la studiano con passione, le nostre scholae cantorum e i nostri gruppi folkoristici fanno il giro del mondo con grandi successi, ho appena ricordato la ben nota dichiarazione dell’Unesco, si assiste al fiorire di associazioni pro loco in tutti i paesi, ecc., e i vescovi si contentano di una “Commissione per lo studio della possibilità dell’uso della lingua sarda nella liturgia”, che per di più non ha mosso un passo dopo il 1999. Eppure, il solo tentativo di fare esperimenti seri nell’uso della lingua sarda nella liturgia costituirebbe anche un fatto culturale di prim’ordine.
    Dopo quanto hanno detto del sardo nel Concilio Plenario, esso è più che abilitato all’uso liturgico».

    Come si è arrivati a questa situazione?

    «Gli ultimi 500 anni di storia della Chiesa sarda mostrano che quasi il cento per cento dei vescovi ha scelto la lingua dei dominatori; fortunatamente o, meglio, grazie a Dio, la “Chiesa dei parroci” ha preferito il sardo: come potevano parlare di Dio ai Sardi se non in sardo? Per le visite pastorali i vescovi si portavano dietro l’interprete».

    In Friuli la Chiesa ha promosso la Bibbia integrale in lingua friulana con l’approvazione della Conferenza Episcopale Italiana. Con il Legionario domenicale festivo e con il Messale romano in friulano si va alla celebrazione della messa e dei sacramenti in quella lingua. Fuori dall’Italia, i catalani hanno affrontato e risolto il problema qualche anno fa. Ai sardi tutto questo è precluso?

    «Perché, dopo un anno dal Concilio plenario sardo, ogni volta che i vescovi parlano della liturgia in lingua sarda, lo fanno solo per additare le difficoltà che vi si oppongono e, invece, negli atti dello stesso Concilio, non se ne parla mai? Chi ha ragione? E come mai ad Alghero ci si può servire del catalano, promosso dai vescovi catalani, mentre nel resto della Sardegna niente sardo perché i nostri vescovi se ne disinteressano?».

    In questi giorni i vescovi sardi svolgono la loro visita ad limina presso Benedetto XVI.
    Come sta la Chiesa in Sardegna? Come la descriverebbe al Papa?


    «Con la stessa dolente definizione che ne ha dato un grande vescovo, l’emerito di Oristano Francesco Spanedda: un “arcipelago di diocesi” che si esprime nella tendenza radicata verso una quasi inesistente collaborazione tra i vescovi. Una tendenza di lunga durata se si pensa che prima che tutti i vescovi sardi si riunissero ad Oristano nel 1924 per il Primo Concilio Plenario Sardo erano trascorsi circa 700 anni (sinodo di Santa Giusta del 1226); fra le circostanze che vi influirono, soprattutto la sciocca e poco evangelica contesa tra gli arcivescovi di Cagliari e di Sassari per il titolo di “primate di Sardegna e Corsica” che si erano autoattribuito. Solo nel “congresso vescovile” del 1876, si prese coscienza che essa era stato “il muro di divisione nella Chiesa sarda” che bisognava “abbattere”. Ma tra il dire e il fare … Anche superata quella contesa, quel “muro di divisione” rimane la tentazione più grande per la Chiesa sarda.

    SALVATORE CUBEDDU

    CITAZIONE
    www.unionesarda.it

    Unione Sarda, del 05/04/2006

    Intervista a don Francesco Tamponi, diocesi Tempio-Ampurias

    "La Chiesa dovrebbe rispettare l'individuo, a prescindere da come esercita la sua sessualità. Nel caso degli omosessuali, da sempre discriminati, dovrebbe prendere posizione e stare con loro, difenderli da un Occidente omofobo". Don Francesco Tamponi, 48 anni, direttore dell'ufficio beni culturali e artistici della diocesi di Tempio-Ampurias, sull'argomento ha le idee chiare, chiarissime. E non gli importa di metterle in piazza. Undici anni fa, quando era parroco di Bulzi, al vescovo che gli impedì di celebrare la messa in sardo dopo un precedente accordo che aveva coinvolto l'intero paese, rispose togliendosi i sandali e i paramenti sacri: "Non continuerò a fare il parroco". Era scoppiato il finimondo, con i massimi prelati isolani a chiedere la testa del sacerdote (volevano sospenderlo a divinis) il quale, nel frattempo, riceveva valanghe di attestati di solidarietà. Il dibattito sul tema, andato avanti per mesi, aveva messo in moto intellettuali e politici. Tant'è che due anni più tardi, la legge di tutela della lingua venne finalmente approvata dal Consiglio regionale. "Non ho alcun merito in questo - precisa don Francesco - diciamo che ho fatto da testimonial. Il merito è della Chiesa, dei preti di campagna. Mi avevano chiamato mosca cocchiera, senza sapere che quel tipo di mosca punge i cavalli e li fa correre". Appunto. Nello studio di Palazzo Villamarina, splendido edificio nel cuore di Tempio, vecchi cimeli religiosi sistemati tipo soprammobili e uno scrigno contenente un osso di San Simplicio, il martire patrono di Olbia. "L'ho acquistato a un'asta su E-bay ? sorride ? anche se non ho ancora capito come abbia potuto finire sulla rete". Comunque adesso è qui, insieme a statue del Cristo e della Madonna tirate fuori chissà dove e in attesa di essere restaurate, in un ambiente che, non fosse per questi reperti, di Chiesa non avrebbe niente. "L'Ufficio beni culturali molti pensano si occupi di cose vecchie. È vero, però nell'arco di sei mesi ha creato ben 422 posti di lavoro dei 1800 previsti entro il 2008. Molti a tempo determinato, la gran parte a tempo indeterminato. Diciamo che è una risposta alle esigenze di lavoro della nostra terra". Don Francesco, cos'è oggi la Chiesa? "È tutto e nulla, e non sempre la si conosce bene. Ci vorrebbe una full immersion. Sì, perché non tutti hanno capito che ci si deve anche sporcare le mani in prima persona, fare qualcosa e non aspettare che altri la facciano per noi". Che significa? "Guardi, io mi sento responsabile pure dei preti mandroni, non voglio dire che io lavori più degli altri, ma c'è modo e modo di farlo. Le persone da un sacerdote si aspettano che le ascolti, che dia un senso ai loro dubbi e alle loro perplessità. La Chiesa in questo ha punte di eccellenza, in positivo e in negativo, perché si è fatta travolgere da una società disarticolata". Vanno bene i don Borrotzu che difendono gli operai di Ottana? "La sua è una battaglia sacrosanta. Mi chiedo dov'era la Chiesa di Nuoro quando si firmavano gli accordi di programma. Bisogna stare vicino ai potenti, certo, ma stando attenti, cercando di capire cosa potrebbe succedere. E non cedere alla tentazione di una Chiesa costantiniana, cioè guardare agli utili economici, al potere e a qualsiasi forma di prostituzione. Dobbiamo metterci a disposizione dei politici, per consigliarli". E invece? "Invece ci manca la profezia, la voglia di scommettere sul futuro. In Gallura la Chiesa aveva favorito l'Aga Khan, organizzato un convegno per sostenere le sue proposte di sviluppo. Oggi non si vigila più su chi viene a depredare il territorio per poi scappare con le tasche piene". Esiste il collateralismo tra Chiesa e potentati politici ed economici? "Esiste quando la Chiesa è succube di idee preconcette. In Sardegna il vero collateralismo è il silenzio, fatta salva qualche rara eccezione. Il lavoro che si fa non è da esempio". Coppie di fatto. "Nessun problema, e la società si dovrebbe astenere dal giudicare. Piuttosto la Chiesa, per la sua natura stessa, parla ma riferendosi al matrimonio in quanto sacramento, porta aperta su una realtà spirituale. E sintesi di due principi universali, il maschile e il femminile che generano la vita". Niente in contrario sul fatto che lo Stato le riconosca? "No, lo Stato può prevedere istituti giuridici per i diritti individuali e non è compito della Chiesa interferire". Ruini però parla troppo. "Spesso viene strumentalizzato, lui chiede attenzione e cautela. Talvolta, magari, esagera".

    Vito Fiori

     
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  12. Istèvini
     
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    CITAZIONE
    http://www.messaggeroveneto.quotidianiespr.../udg/udg13.html

    La Gramatica pratica
    da lenga furlana



    Sono ansioso e quindi curioso di poter consultare, grazie all’iniziativa del nostro giornale, la Gramatica pratica da lenga furlana. Come si vede, l’ho descritta in maniera un po’ diversa, cioè l’ho scritta come mi hanno insegnato a parlare mia madre e mio padre. Ha un bel dire la vicepresidente e assessore alla cultura della nostra Regione, Alessandra Guerra, di «grafia normalizzata» e di «regole democratiche», ma, spero, non vorrà fare violenza su un carnico, imponendogli, al di là delle regole grammaticali, di scrivere in friulano. Non scriverò mai spète co vjôt, scriverò sempre spiéta chi jôt. Imporre ai carnici di scrivere secondo la grafia ufficiale significa fare violenza sulla loro cultura, sulla loro storia. È noto che esistono differenze, anche se non sostanziali, nelle parlate delle varie vallate carniche, nella valle del Bût si parla in modo differente rispetto alla val Degano, così come nella val Pesarina o nell’alta val Degano o nell’alta val Tagliamento, per non dimenticare la conca tolmezzina.
    Ben venga la grammatica, poi ognuno la adatti alla propria parlata. Se così non fosse, una buona parte della nostra cultura sarebbe sacrificata sull’altare della grafia normalizzata, sull’altare degli standard di comprensione. Per comprenderci non serve la grafia unica, io ho bisogno di conoscere la grammatica per poi scrivere come parlo, sì proprio per scrivere, cosa che nessuno finora mi ha mai insegnato. Il buonsenso pratico sta proprio nell’adattare le regole a un modo di esprimersi diverso, così come il friulano vuole distinguersi dall’italiano, così il carnico vuole mantenere la sua caratteristica rispetto al friulano. Nell’altro.
    Tita De Stalis
    Ravascletto

     
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  13. Istèvini
     
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    CITAZIONE
    http://www.arbaree.info/?p=725

    Dirigenti scolastici contro la lingua sarda: «anche la società sarda è ormai globalizzata»

    Sull’ Unione Sarda del 06/06/2007, in un articolo intitolato “Limba nelle scuole? «Io mi sento italiano»“, in cui veniva presentata la proposta del sindaco di Cabras di inserire il sardo nelle scuole come materia d’insegnamento, è emerso il parere sconcertante di due dirigenti scolastici sardi. Per la precisione, il dott. Paolo Casu afferma: ”se certamente la storia e le tradizioni devono essere tramandate alle giovani generazioni, oggi non mi sentirei di rendere obbligatorio l’insegnamento del sardo, una strada difficile da percorrere e applicare integralmente perché anche la società sarda è ormai globalizzata“. Gli fa eco il dott. Angelo Spanu, (direttore del Centro culturale Giovanni Marongiu): “..renderlo obbligatorio (il sardo) è un’altra cosa - spiega Spanu - io sarei del parere che la scelta degli alunni debba essere facoltativa e solo nelle scuole dove esistono le condizioni. Penso alle enormi difficoltà che si incontrerebbero anche a livello di insegnanti“.

    Adesso si capisce come mai la scuola sarda è agli ultimi posti nelle classifiche italiane. Il che significa anche in quelle europee perchè l’Italia non è certo meglio degli altri.

    Secondo il Dott. Paolo Casu è difficile insegnare il sardo perchè la società sarda è “globalizata”. Non si è mai sentita una banalità di questa portata. Le cose sono due: o il Dott. Casu pensa che la globalizzazione sia una iattura che impedisca di insegnare il sardo ai bambini (quasi una calamità naturale di deleddiana memoria), oppure secondo il dirigente siamo arrivati a una società che non ha bisogno perchè globalizzata, della propria lingua, e ha bisogno solo della lingua inglese.

    È un pensiero molto superficiale in entrambe i casi, anche in virtù del fatto che un dirigente scolastico oltre a fare delle considerazioni, dovrebbe mipegnarsi per migliorare la scuola, e non accettare passivamente quello che lui chiama globalizzazione.

    In tutto il mondo, proprio a ridosso del fenomeno globale, sono nate iniziative culturali che vanno in controtendenza all’appiatimento globale della cultura. La lingua è il primo segno di queste manifestazioni: dal Brasile all’Europa intera nelle scuole si studiano le lingue indigene considerate minacciate e questo non è per niente contrario a sua maestà globalizzazione. Anzi, citando Franciscu Sedda, avviene quel fenomeno chiamato “glocalizzazione”, ossia, come detto con uno slogan forse banale ma efficae: pensare globale e agire locale.

    Il Dott. Spanu si sofferma sulle difficoltà dell’insegnare il sardo: difficoltà che fino ad ora nessuno si è sognato di affrontare seriamente.

    I dirigenti scolastici sardi e il copro docente dovrebbe fermarsi a riflettere e trarre le conclusioni del suo opertao disastroso, ma purtroppo il buon esempio non gli viene certo dalla giunta regionale: infatti l’assessorato alla cultura è ancora ad interim, segno di grande mancanza di sensibilità. Altro che master and back… cruccurigas po is dirigentis.

    Gillo Paluncu

     
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  14. Istèvini
     
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    Ci son diversi passaggi che non condivido, ma leggerlo può essere utile a trarre qualche spunto di riflessione...


    CITAZIONE
    image

    http://www.sotziulimbasarda.net/giugno2007/limbadinari.htm

    23/06/2007
    Lingua, potere e quattrini
    [di Roberto Bolognesi]

    Provate a immaginare una Sardegna in cui la classe dirigente non consideri la sua terra periferia di Milano o Roma, ma centro del Mediterraneo occidentale.

    Questa classe dirigente avrebbe rapporti culturali ed economici con Marsiglia, Barcellona, Algeri e Tunisi, oltre che con Milano e Roma.

    Domanda retorica: quella Sardegna ipotetica sarebbe più ricca o più povera rispetto a quella attuale?

    Ho investigato questa ipotesi in un articolo in sardo pubblicato su Diariulimba (http://www.sotziulimbasarda.net/ottobre200...su%20famine.pdf) e ho ovviamente concluso, fornendo le dovute motivazioni, che quella Sardegna sarebbe molto più ricca.

    Chi si considera periferia si rivolge automaticamente all’unico centro che riconosce e, nei suoi rapporti con questo, accetta le condizioni che il centro gli detta.

    Chi si considera centro, invece, si guarda attorno e sceglie di interagire nel modo più conveniente con chi gli sta attorno.

    Ma da dove proviene la differenza fra il considerarsi centro o periferia?

    Geograficamente, noi siamo più vicini a Marsiglia che non a Genova, e a Barcellona che non a Milano; politicamente tutte queste città sono all’interno dell’Unione Europea e la Sardegna è al centro di quest’area di libero traffico di merci e di persone; linguisticamente le uniche barriere che esistono sono quelle prodotte dal monolinguismo isterico che affligge gli italiani: basterebbe imparare francese e catalano (o almeno spagnolo: per noi sarebbe uno scherzo! E oltretutto, gli algheresi dove li lasciamo?).

    Ma allora, perché siamo ancora soltanto periferia dell’Italia?

    Provo a fare un esempio quasi concreto.

    Un’industria catalana che volesse piazzare i suoi prodotti in Sardegna —e i Catalani sanno bene dove’è la Sardegna con il suo mercato di oltre 1.600.000 consumatori—dovrebbe necessariamente passare per Milano: lì hanno sede le grandi imprese di distribuzione che operano nel territorio dello stato italiano. Oggi come oggi, chi vuole arrivare in Sardegna deve passare per Milano.

    Questo danneggerebbe un po’ l’industria catalana, che diventerebbe meno competitiva nei nostri confronti, ma soprattutto noi consumatori sardi, che pagheremmo il trasporto delle merci su una distanza quasi tripla rispetto a quella tra Barcellona e Porto Torres (solo 514 km di trasporto via mare!): Barcellona-Milano (740 km: via terra! ) + Milano-Porto Torres (530 via terra e via mare) = 1270 km. Ma il trasporto di merci via terra è ovviamente molto più caro. A questo andrebbe aggiunto il fatto che i profitti della distribuzione dei prodotti catalani in Sardegna verrebbero reinvestiti a Milano e non in Sardegna.

    Le uniche a guadagnare da questa situazione sarebbero dunque le imprese di distribuzione con sede a Milano. Queste però trovano probabilmente più redditizio distribuire prodotti provenienti da aree più vicine alle loro sedi, ma più lontane dalla Sardegna.

    Non a caso, allora, non ho mai visto in Sardegna quei prodotti catalani e/o spagnoli che in Olanda—dove vivo—si vendono a prezzi molto competitivi. In ogni caso, quindi, a parità di prodotto, noi sardi paghiamo più del dovuto i prodotti importati dall’Italia (o che passano per l’Italia).

    Perché allora i Sardi, che hanno tutto da guadagnare da una razionalizzazione del mercato, non vanno a comprarsi quei prodotti direttamente in Catalogna? O a Marsiglia? O perfino a Londra, visto che in termini di costi dei voli, l’Inghilterra è molto più vicina dell’Italia?

    I Sardi che potrebbero fare questo salto—la nostra classe dirigente—continuano a comportarsi come se, qualunque cosa succeda, si debba passare per forza per Milano o per Roma. I nostri eroi pensano che per arrivare a Barcellona—uno dei centri economici europei—si debba passare da Milano: il loro punto di riferimento.

    Essere periferia vuol dire allora questo: non pensare in modo autonomo; pensare che sia naturale pagare più del dovuto, pur di non mettere in discussione il rapporto di dipendenza con quello che si considera il proprio punto di riferimento. La palla al piede dei Sardi è proprio la dipendenza psicologica—cioè politica, culturale ed economica— che questa gente ha nei confronti dei centri di potere dell’Italia. Questo è il fattore che riproduce in eterno il sottosviluppo e la dipendenza della Sardegna.

    La mentalità dipendente di questi Sardi fa molto comodo agli imprenditori milanesi, che cosí non vedono i loro profitti in Sardegna minacciati dalla concorrenza—per esempio—catalana, ma al resto dei Sardi questa costa solo un sacco di quattrini. Anni fa la Sardegna importava almeno l’80% dei prodotti di consumo. E oggi?

    Lo stesso ragionamento vale per i (pochi) prodotti che la Sardegna offre sui mercati esterni.

    So che esistono eccezioni a questa regola, ma sono, appunto, eccezioni.

    Con questo, però, non voglio suggerire che il comportamento della classe dirigente sarda sia irrazionale: finora tutto questo, per la classe dirigente sarda, ha pagato e loro sono rimasti in sella. Al contrario, irrazionale è il comportamento del resto dei Sardi, i quali pagano il prezzo delle scelte culturali ed economiche effettuate dall’attuale élite, senza averne una controparte. Irrazionale—si legga: “stupido”—è chi si tiene sulla groppa un ceto parassitario che ancora si autolegittima come intermediario tra i Sardi e i centri di potere italiani, mentre ormai gli attori sulla scena economica e culturale sono, come minimo, il resto dei paesi europei e, ormai, tutti i protagonisti della globalizzazione in atto: in via Sardegna, a Cagliari, oggi ci sono i Cinesi al posto dei Napoletani. Un buon intermediario oggi non parla italiano: parla soprattutto inglese (e possibilmente cinese!) e ... sardo.

    Perché il sardo?

    La storia ci ha dimostrato che una classe dirigente incapace di comprendere la propria terra, la porta alla rovina. E per capire la Sardegna bisogna pensare in sardo.

    La Sardegna che pensava in sardo ha prodotto Deledda, Lussu e Gramsci. La Sardegna che pensa in italiano ha prodotto Segni, Cossiga e—ma c’entra?—Berlinguer. Chi è stato meglio? Meglio per noi? Meglio per il resto del mondo?A noi posteri la non ardua sentenza .

    La ragione d’essere di una classe dirigente in una società civile e democratica proviene dalla capacità di conciliare i propri interessi—ci mancherebbe altro!—con quelli della collettività. Chi non ha questa capacità, prima o poi viene spazzato via—pardon! sostituito.

    La classe dirigente sarda—definita da Michelangelo Pira “borghesia compradora”—si è formata e ha stabilizzato il proprio ruolo intorno alla fine dell’800.

    Il compito dei “printzipales” cooptati al potere metropolitano era quello di rendere governabile la Sardegna (soprattutto il Nuorese: la “zona delinquente!” ) da parte del potere metropolitano.

    Il loro compenso consisteva nel rendere stabili i privilegi che fino ad allora ciascuna generazione di printzipales doveva conquistarsi per conto suo in ciascuna delle “libere repubbliche montanare” costituite dai villaggi sardi (sempre secondo Pira).

    Il banditismo—cioè il modo tradizionale di redistribuire la ricchezza—impediva la cristallizzazione dei privilegi dei neo-borghesi/ex-balentes e metteva in discussione il monopolio statale della violenza. Ex abigeatari di successo e potere metropolitano—il garante dello status quo—si trovarono quindi alleati nella volontà di fermare i nuovi arrampicatori sociali.

    L’opera di Grazia Deledda, all’incirca contemporanea a quegli avvenimenti, si può leggere come il resoconto letterario della nascita della “borghesia compradora”. Per capire il collegamento tra i romanzi deleddiani e la realtà della Sardegna di fine ‘800, basta leggerli parallelamente a “La rivolta dell’oggetto” di Pira e a “Banditi a Orgosolo” di Franco Cagnetta.

    Anche per la “borghesia compradora” nel suo insieme vale allora quello che Alberto Cirese in “Intellettuali, folkore, istinto di classe” ha scritto di Grazia Deledda: “Ed eccola presa necessariamente nella tensione tra “civiltà” e “barbarie”: non può rifiutare la prima se non compremettendo l’opera di mediazione e di integrazione che intende svolgere; non può rinunciare alla seconda se non rinunciando al suo stesso ruolo.” E l’opera di Grazia Deledda non si può comprendere appieno se si ignora che il fratello maggiore (definito “il suo idolo maggiore” in “Cosima”, l’ultimo romanzo largamente autobiografico) era finito in galera per abigeato.

    Come Grazia Deledda ne aveva bisogno per avere qualcosa di cui scrivere per il pubblico “continentale” a cui si rivolgeva, la classe dirigente sarda aveva bisogno del “banditosardo” per poterlo tradire e vendere al potere metropolitano, e quindi legittimare di fronte allo stato la propria posizione localmente egemone. I printzipales dovevano però tradire non solo i banditi loro contemporanei, ma anche la memoria dei propri padri e nonni: la cultura che li aveva espressi come primi inter pares (si veda di nuovo Pira).

    A legittimarli di fronte al resto dei Sardi c’era poi la cultura superiore (“la civiltà”) dei “continentali” che loro ormai rappresentavano indirettamente attraverso i loro figli “studiati” (sempre Pira).

    I frutti dell’abigeato (recente o antico) venivano perciò investiti nell’acculturamento, in modo da porre i propri figli al di fuori delle dinamiche della cultura tradizionale, secondo le quali i privilegi di un printzipale duravano quanto durava la sua capacità di saperseli garantire. Altrimenti la ricchezza accumulata veniva inesorabilmente redistribuita.

    Da quel momento in poi sarebbe stata la scuola, soprattutto attraverso il filtro spietato della lingua, a selezionare la futura classe dirigente. Solo i più diligenti nell’appropriarsi della lingua e dei valori “nazionali” potevano sperare di accedere ai posti di comando.

    Storie di ordinaria follia coloniale, raccontate in modo tragicomicamente adeguato da Cicitu Masala...

    Questa ricetta di suddivisione dei ruoli tra potere centrale e locale ha funzionato per molto tempo, anche nel periodo postcoloniale. Neanche il primo sardismo (neanche Lussu!) ha mai messo in discussione la superiorità della cultura e della lingua del potere centrale. Per tutti, la lingua e la cultura che erano alla base de “l’iniqua disparità di partecipazione al processo della costruzione capitalistica” (Cirese, op. cit.) erano considerati da tutti “Lingua e Cultura tout court”.

    Ci sono voluti il ’68—figlio anche della decolonizzazione e del terzomondismo—e soprattutto il risveglio dalla sbronza petrolchimica, perché i Sardi cominciassero a mettere in discussione la cultura italiana. Il delirante modello di sviluppo imposto dalla classe dirigente sarda—praticamente tutta la classe dirigente sarda!—ha fatto comprendere che la loro subalternità culturale aveva danneggiato i Sardi in modo gravissimo e proprio economicamente.

    Accecati dal proprio complesso di inferiorità, i Sardi si erano messi a fare i Milanesi e i Milanesi—ogni riferimento a fatti o persone reali è puramente casuale—li avevano fregati! A parti quelli rubati, quanti quattrini sono stati buttati a mare, quanti soldi non sono stati investiti in uno sviluppo possibile e gestibile...

    E ancora oggi: inquinano in Sardegna, ma pagano le tasse a Milano. O forse sta cambiando qualcosa?

    Il monumento alla cultura sarda pubblicato nel 1978 da Michelangelo Pira con il titolo eloquentissimo di “La rivolta dell’oggetto” segna il momento più alto della presa di coscienza da parte di una nuova élite di intellettuali sardi. Il lavoro di Pira, largamente ispirato dal profeta della globalizzazione McLuhan, ha anche anticipato moltissimi degli sviluppi successivi del dibattito culturale in Sardegna e ha a sua volta ispirato una nuova generazione di intellettuali non più—o non solo—“sardisti”, ma, come Pira, soprattutto sardofoni e sardografi. Il neosardismo deve molto di più a Gramsci che non a Lussu—uomo d’azione, quest’ultimo, e non di riflessione.

    Le nuove avanguardie culturali dei Sardi hanno cominciato cosí a scrivere la propria antropologia, la propria linguistica e la propria letteratura senza la mediazione soffocante e inquinante della cultura e dell’università italiane e guardando direttamente alla cultura internazionale. Il resto è cronaca...

    Dopo il riconoscimento del sardo da parte della legge regionale 26/97 e, da parte dello stato italiano, con la legge 248/99 gli eventi hanno subito un’accelerazione. Oggi la maggioranza dei Sardi afferma di sentirsi maggiormente legato al sardo che non all’italiano e vuole che il sardo entri nella scuola e acquisisca uno status ufficiale nell’amministrazione pubblica.

    Le domanda e l’offerta di sardo sono cresciuti in modo esponenziale negli ultimi anni. La crescita dello status del sardo ha comportato una crescita immediata del corpus (l’insieme del materiale linguistico prodotto): negli ultimi trenta anni sono stati pubblicati circa 150 romanzi in sardo e perfino Giulio Angioni ha ammesso che esistono delle buone opere letterarie in sardo; esistono da quasi dieci anni siti Internet in cui si scrive in sardo degli argomenti più disparati; i Sardi che leggono e scrivono in sardo non sono più una pattuglia sparuta e una nuova élite intellettuale ormai usa il sardo anche in situazioni altamente formali (conferenze, libri e articoli più o meno tecnici), rompendo con gli schemi tradizionali (la diglossia) che volevano il sardo relegato alle situazioni informali e amicali/famigliari o alla poesia, riservando all’italiano le occasioni “serie” .

    Ma dove deve portarci “la riscoperta” della lingua sarda?

    L’obiettivo che dobbiamo proporci è in fondo di una semplicità disarmante: dobbiamo riportare il sardo alla sua primitiva condizione di lingua “normale”, una lingua in cui si può fare tutto quello che si fa in qualunque altra lingua e cultura, cioè vivere.

    Per la maggior parte dei sardi, la diglossia, cioè il fatto di vivere parte della propria vita in una lingua e parte in un’altra, con differenze gerarchiche (di adeguatezza) nell’uso di una lingua o dell’altra, a seconda della situazione, è un fenomeno non più vecchio di una cinquantina di anni. Lo studio di Ines Loi Corvetto, pubblicato nel 1983 (“L’italiano regionale di Sardegna”), mostra che ancora negli anni Settanta in gran parte della Sardegna non esistevano differenze gerarchiche nell’uso dell’italiano e del sardo. L’uso di una lingua o dell’altra non implicava un giudizio sulla posizione sociale dell’interlocutore.

    Interpretando senza forzature le affermazioni della studiosa, si può dire che l’uso di una lingua o dell’altra era dettato dalla disponibilità di un lessico adeguato alla situazione: la disponibilità di parole per parlare di un certo argomento dettava la scelta della lingua e quindi si parlava di lavoro e faccende quotidiane in sardo, e di argomenti “allenus” come i documenti del catasto o il Festival di Sanremo (in parte) in italiano. La situazione sociolinguistica in gran parte della Sardegna già allora confinava con la diglossia—ma esistono diverse definizioni di diglossia —ma poteva definirsi ancora come una situazione di bilinguismo “imperfetto”.

    A un certo punto, il sardo—come ha scritto Nanni Falconi—è diventato “sa limba de su famine”. Parlare in sardo è diventato segno di inferiorità sociale.

    Oggi, diversamente che in passato, “vivere in sardo” non è del tutto possibile, ma per un motivo semplicissimo: gli intellettuali sardi finora non hanno usato la nostra lingua per esercitare la loro attività. Nella vita attuale esistono attività e situazioni per le quali il sardo ancora non possiede parole adeguate. Ed esprimersi in modo inadeguato comporta sempre una forte stigmatizzazione sociale.

    La colpa—se di colpa si tratta—è tutta degli intellettuali, perché, nei decenni tumultuosi seguiti all’ingresso della Sardegna nell’era industriale, non hanno provveduto ad aggiornare il lessico del sardo. I registri alti e quelli tecnici di una lingua vengono sviluppati dalle élite intellettuali che usano la lingua nelle loro attività, e lamentarsi, per esempio, che in sardo non si possa parlare di chimica è solo un altro modo di dire che ai chimici sardi non è mai stata data la possibilità, o il diritto, di parlare di chimica in sardo. Oppure che loro si sono vergognati di sviluppare in sardo il registro tecnico della chimica.

    Perfino gli intellettuali devono mangiare e fino ad oggi a dar da mangiare agli intellettuali sardi sono stati—cerco di rimanere neutrale—gli altri...

    Dopo il franchismo, i chimici catalani hanno sviluppato in poco tempo il proprio registro tecnico in catalano. Sarà che l’industria chimica era catalana e non . milanese?

    E a questo punto arriva la domanda cruciale: si deve dire che non si può parlare di chimica in sardo, perché non esiste la Chimica Sarda, oppure è il caso di porsi la domanda opposta e dire che non esiste la Chimica Sarda perché non si parla di chimica in sardo?

    La Catalogna parla catalano perché è ricca? O è ricca perché parla, scrive e pensa in catalano?

    In altri termini: è vero che “la cultura è sovrastruttura”? Oppure il rapporto tra cultura e economia è più complesso e fondamentalmene paritario?

    Non è mia intenzione ribaltare completamente il dogma marxiano: è difficile trovare delle società avanzate culturalmentee, ma materialmente povere. Contemporaneamente, però, non conoscono una singola situazione in cui la ricchezza materiale non sia accompagnata da una cultura elevata.

    E abbiamo tutti sotto gli occhi gli esempi di culture millenarie—Cina e India—che si riaffacciano prepotentemente sulla scena economica dopo una—in tempi storici—breve parentesi di grande poverta materiale.

    E allora: “Siamo poveri perché siamo sardi”, come dissero a Gramsci quei soldati/minatori di Iglesias che presidiavano gli impianti della FIAT . O siamo invece poveri perché non siamo sardi abbastanza?

    La (non)risposta l’ha data Gramsci stesso: “un popolo che si pone il problema della lingua, in realtà pone il problema della sua identità sociale ed economica”.

    Forse si tratta di un’altra illusione, ma il messaggio che arriva dalla ricerca sociolinguistica curata dalla Prof.ssa Oppo per me è chiaro: la stragrande maggioranza dei sardi “si pone il problema della lingua”, cioè il problema della propria identità.

    Allora a cosa serve il sardo ufficiale, diffuso, normale, tornato a riempire la vita dei sardi in tutti i suoi aspetti: dalla scuola all’ufficio pubblico, dal lavoro al rapporto tra un uomo e una donna?

    Dico una cosa banale: il sardo serve prima a scoprire e poi a ribadire la normalità dell’essere sardi. Qualcosa, quindi, di cui forse non è molto sensato essere fieri, ma certamente niente di cui vergognarsi. L’essere sardo è la condizione normale di chi in Sardegna è nato e/o cresciuto e normale è la sua specificità e diversità rispetto ai non sardi.

    Non ci sono grandi discorsi da fare, ma nessuno deve neanche permettersi di negare la nostra specificità.

    Eppure questo nostro diritto viene ancora negato, almeno dalla parte “non eletta” della nostra classe dirigente: dalla scuola, dalla chiesa, dai giornalisti, dagli intellettuali da esportazione, soprattutto quei giallisti che continuano a scrivere di sardi pelosi e violenti—il banditosardo vende ancora, perché innovarsi?—e ci ricordano ad ogni loro uscita quanto sono diversi da Sciascia, che usava i gialli per costruire coscienza civile.

    Sono loro i più assatanati nel condannare la possibilità di avere anche per il sardo degli operatori che lavorano a tempo pieno, dei professionisti della lingua e della cultura.

    Smesso ormai il tono saccente e la superiorità ostentata, accusano rabbiosamente i “partigiani della limba” di volere quello che loro hanno già: un ruolo definito all’interno della società sarda e la possibilità di occuparsi di sardo in modo professionale.

    Le lingue minoritarie devono fare meglio delle lingue dominanti, se non vogliono sparire. Loro propongono che noi si continui con il volontariato: “Per fortuna però ciò che è fattibile da noi nel nostro piccolo si fa, a partire almeno da Vincenzo Porru e da Giovanni Spano (o dall'Arquer e dal Fara già nel Cinquecento), anche senza iniezioni di orgoglio etnico sotto forma di finanziamenti pubblici.” (Giulio Angioni, in L’Unione Sarda del 16.12.04).
    Nel loro furore di conservatori (dei propri privilegi) ricorrono a tutto il repertorio classico degli insulti usati da sempre contro i “sovversivi”: mancano ancora le Madonne Lacrimanti e l’accusa di mangiare i bambini. Diamogli tempo...
    Figuriamoci cosa riuscirebbero a fare i “partigiani” se potessero dedicarsi a tempo pieno alla lingua sarda. Con il volontariato e con i pochi mezzi messi a disposizione da università estere sono già riusciti a colmare gran parte del vuoto culturale e scientifico in cui il sardo era immerso.
    Il monopolio wagneriano sulla linguistica sarda è stato spezzato. Wagner si è dimostrato grande soltanto in confronto a chi l’ha seguito. L’intera idea del sardo come lingua arcaica—idea funzionale alla dipendenza dei Sardi: la nostra lingua è la lingua del banditosardo e della “barbarie” deleddiana—è crollata. L’unica cosa di arcaico in questa storia è risultata la linguistica praticata nelle università sarde, che non hanno mai messo in discussione le cantonate prese dal linguista tedesco. Ma in certi casi si può anche parlare di “idealizzazioni radicali”...
    Oggi del sardo esistono descrizioni sincroniche adeguate ai tempi—quasi tutte finanziate da università estere—e non solo rimasticazioni di un manuale di linguistica storica che già al momento della sua pubblicazione, nel 1941, rifletteva un approccio alla lingua superato da decenni.

    Occorre adesso estendere le descrizioni esistenti delle strutture della lingua sarda, per poter realizzare quel materiale didattico senza il quale non si può introdurre il sardo nelle scuole. E per realizzare un corpus (ripeto: l’insieme del materiale linguistico) adeguato al nuovo status del sardo. Sto dicendo, appunto, che occorre praticare ancora di più quella linguistica moderna che permette di tradurre in azioni concrete le conoscenze scientifiche, e quindi che occorre finanziare in modo organico la ricerca scientifica sul sardo.

    Sto dicendo anche che, accanto ai professionisti della ricerca, occorrono dei professionisti dell’applicazione dei risultati di queste ricerche: traduttori, funzionari pubblici, giornalisti, scrittori, formatori. E sto dicendo che occorre un esercito di insegnanti, adeguatamente preparati, che insegnino il sardo nelle scuole.

    Come si può vedere chi ci attacca ha perfettamente ragione: siamo effettivamente pericolosissimi (per loro!). Vogliamo per il sardo niente di meno di quello che si fa per l’italiano. Vogliamo che la “pari dignità tra sardo e italiano” non rimanga sulla carta.

    E quando l’avremo ottenuto, sarà molto difficile per loro continuare a vivere di rendita: i privilegi dovranno guadagnarseli in un mercato della cultura finalmente liberato dal monopolio italiano.

    Adesso abbiamo bisogno del sardo perché abbiamo bisogno di una classe dirigente che ci fornisca i mezzi per acquisire un’identità sociale ed economica di cui non ci si debba vergognare. Duecento anni di colonizzazione linguistica, culturale ed economica non ce l’hanno data: è ora di cambiare.

    Se parliamo in sardo, siamo sardi di serie A, cittadini di uno dei centri possibili—futuri?—del Mediterraneo, ma quando parliamo italiano (di Sardegna) siamo italiani di serie C, abitanti della periferia remota di uno dei paesi più corrotti e politicamente inaffidabili del mondo, un paese in cui la criminalità organizzata gestisce almeno un terzo del territorio e dove a dettare effettivamente legge è uno sciamano più preoccupato di negare i diritti civili agli omosessuali che di punire i suoi dipendenti pedofili: lasciatevelo dire da uno che da oltre 20 anni vive molto volentieri in uno dei paesi più civili del mondo. Come forse avete capito, non ho una grande ammirazione per l’Italia.

    La differenza di prezzo tra i voli per Barcellona e quelli per Roma e Milano è allora, oltre che concreta, anche la metafora di quanto ci costa il “privilegio” di essere periferia del Bel Paese: il prezzo politico pagato per i biglietti aerei “con la continuità territoriale” è più alto di quello che dovrebbe essere il prezzo di mercato. Il mercato, nel caso dei voli tra Sardegna e Italia, è drogato dall’eccesso di domanda, cioè dalla dipendenza politica, culturale ed economica dei Sardi.

    E sí, ci costa meno rivolgerci altrove. Io l’ho fatto e ne sono rimasto molto soddisfatto.

    Roberto Bolognesi

     
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  15. Istèvini
     
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    CITAZIONE
    La giovane ozierese usa il sardo come madre lingua.
    Studentessa modello ammessa ai corsi della Normale di Pisa.


    Usa il Sardo come madre lingua, ma questo non le ha certamente impedito di diventare una delle migliori studentesse sarde.
    Chiara Murratzu, 18 anni appena compiuti, promossa con la media del 9,5 all'ultimo anno di Liceo Scientifico, ha ricevuto la lettera di convocazione per il corso di orientamento che la Scuola Superiore Normale di Pisa mette a disposizione dei ragazzi che si segnalano per il talento negli studi.

    Un risultato che in qualche modo ha tappato la bocca a chi tra insegnanti ed educatori aveva criticato la scelta dei genitori di insegnare a Chiara a parlare in sardo, utilizzandola come madre lingua. Una bella rivincita verso chi ipotizzava difficoltà di inserimento nei programmi scolastici. Dubbi subito fugati, da quando Chiara ha iniziato a collezionare il massimo dei voti in tutte le materie e in particolare in Italiano.

    Dagli anni sessanta, ai bambini è stato insegnato solo l'italiano, mentre i genitori hanno continuato a parlare in sardo. Michelangelo Pira affermava che il Sardo veniva considerato grezzo e avvezzo a categorie sociali inferiori. E anche con le maniere forti i ragazzi venivano dissuasi dal parlare in sardo.

    La scuola in questo ha grosse responsabilità e solo alcuni insegnanti illuminati come Tonino Ledda, fondatore del Premio Ozieri, hanno cercato di porre rimedi. Oggi le cose sono cambiate, si è preso coscienza del rischio di perdere il valore fondamentale della lingua e della cultura sarda.

    Avevano ragione loro, Giampiero e Franca che con orgoglio vedono partecipare la loro figlia al corso di orientamento agli studi della Normale di Pisa, fra i migliori cervelli della penisola. La vicenda è emblematica, e dovrebbe veramente far riflettere quanti ancora indugiano sulla necessità che come ha sostenuto il professor Nicola Tanda <<una parte, almeno la metà, della trasmissione del sapere, deve passare tramite il Sardo>>.

    Rossano Sgarangella.

    Unione Sarda 16 Luglio 2007.

     
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20 replies since 3/2/2007, 23:08   789 views
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